Zavattini e il racconto dell'invisibile
1. Parliamo tanto di me, Cesare Zavattini - di Franco Carpi, 1966, Documentario.
Ispirato dal primo libro di grande successo del padre del neorealismo, il regista trascorre una giornata con Cesare Zavattini, "nella sua casa: la posta, la colazione, le telefonate, le sue distrazioni. Ma soprattutto il suo lavoro creativo e continuo" (cit.), da Luzzara a Roma, da Roma di nuovo a Luzzara.
“Un luogo dove andare per chiudere? Non lo so, magari a Bergamo. Ho studiato a Bergamo otto anni e ho trascorso un’infanzia stupenda. Oppure a Parma dove ho cominciato a scrivere. Non so… per esempio al cimitero del mio paese. Noi a Luzzara, tutti, ci siamo tanto familiarizzati con questo posto. Non è mica un posto che richiama dei pensieri tristi, ci veniamo con molta naturalezza e io che sto assente molto tempo, per esempio quando torno, vengo qui e siccome ci sono tutte le fotografie, vedo queste fotografie di quelli che sono morti, per esempio durante l’anno, e io qualcuno pensavo che fosse in piazza e invece è qui. Perché? Perché ci si forma delle volte l’idea nella testa che la morte sia semplicemente un trasloco, cioè siamo mandati in luoghi lontani, diversi, ai quali non ci si pensa…” (Cesare Zavattini). In questa scena Carpi invita Zavattini ad andare dietro la macchina da presa, a guardare nell'obiettivo: “Lo sceneggiare è come l'ombra rispetto al vedere” dice Zavattini. Dovrà però aspettare 13 anni per ritrovarsi dietro quella macchina da presa, con il primo e unico film di cui curò anche la regia “La veritàaaa”.
2. L'ultima cena - di Cesare Zavattini, 1972.
Soggetto non realizzato, ma pensato per Luzzara e di cui esistono alcune riprese e fotografie di Gianni Berengo Gardin (conservate alla Fototeca dei Musei Civici di Reggio Emilia), realizzate nel periodo di lavorazione del libro Un paese vent’anni dopo (1976).
3. Cesare Zavattini – di Carlo Lizzani, 2003, Documentario.
Produzione: Istituto Luce, Cinecittà Holding, Felix Film e distribuito dalla RAI Trade. Un “ritratto” di Zavattini che permette al pubblico internazionale di percorrere a tutto campo la storia stessa del cinema italiano, dagli anni ‘30 agli anni ’70.
Un film su “Za” scrittore, pittore, direttore editoriale, operatore culturale, oltre che cineasta, che si fonda sulla lunga esperienza di Lizzani come regista e come storico del cinema e che al tempo stesso nasce anche dai ricordi personali, da una frequentazione che l’autore ha avuto con Zavattini. Il film richiede, per la ricchezza delle angolazioni offerte dalla sua personalità, un impegno complesso di “messa in scena”. La struttura del racconto si articola tra riprese originali nei luoghi della formazione, testimonianze di attori, amici e collaboratori e testimonianze dello stesso Zavattini.
4. Il vegetariano - di Roberto San Pietro, 2019.
Krishna, figlio di un bramino, vive mungendo mucche nella campagna emiliana bagnata dal Po. Ciò lo riporta alla sua infanzia in India, segnata da un grande rispetto per la natura. Quando una mucca improduttiva viene destinata al macello deve fare una scelta: accettare la cultura in cui vive o seguire la sua coscienza?
Girato tra la Pianura Padana con scene nei templi sikh e induista di Novellara (Re) e l’India nei dintorni di Varanasi, il film è liberamente ispirato a reali esperienze di vita di immigrati indiani, che a partire dagli anni Novanta si sono trasferiti in Italia, trovando lavoro soprattutto nelle stalle e nei caseifici e diventando in breve tempo una risorsa indispensabile e necessaria per tutta la filiera del latte. Sullo sfondo di questa realtà, San Pietro ha intrecciato altre tematiche quali la disgregazione del mondo agricolo e le difficoltà dei piccoli allevatori, i conflitti familiari fra immigrati di prima e seconda generazione, una storia d’amore fra ragazzi di culture diverse e la presenza di un grande fiume, il Po, che alimenta negli indiani la memoria del sacro Gange. Novellara, con i suoi portici e le sue attività culturali e ricreative (la biblioteca umana!) è rappresentato come un luogo di socialità, ospitale e concreto, in cui mettere in scena le relazioni e le tensioni del film.
5. La voce della luna - di Federico Fellini, 1990.
Tratto dal romanzo "Poeta dei lunatici" di Ermanno Cavazzoni. Il prefetto Gonnella (Paolo Villaggio), paranoico complottista, e Ivo Salvini (Roberto Benigni), poeta malinconico e innamorato, vivono un'avventura onirica nella pianura padana. La voce della Luna attira i curiosi e sognatori vicino ai pozzi e confida sogni e segreti.
Di impianto medievale, nel rispetto della struttura "a recinto", la rocca è il simbolo-cuore di Reggiolo, del paese. Restaurata con la dinastia dei Gonzaga, nel 1470, ad opera dell'architetto Luca Fancelli, ancora oggi, con suoi alti bastioni fortificati e le sue torri, rappresenta la costruzione militare e difensiva tipica del passato. Lo stesso edificio viene ripreso emblematicamente da Fellini, nella sua ricostruzione reale o cinematografica della bassa, come uno degli elementi cardini del paesaggio. Insieme ad altri elementi compone il mondo alla deriva e sconclusionato, tra tradizione e presente, del regista riminese, che lo definì "un film sull'assenza di un sentimento, di un'ideologia; sulla frammentazione e sullo sbriciolamento contemporanei".
Fellini, dopo la realizzazione del film, restò in contatto con Reggiolo, poiché ammirò moltissimo il paese, la gente, l'ospitalità, il cibo. Nel paesaggio tipico e di confine, fatto di ricordi, illusioni e disorientamento, oltre alla rocca, alla campagna, alla discoteca e ad altri luoghi/nonluoghi, si annoverano anche le chiese. Come quella di San Rocco, dedicata nell'abside anche alla tradizione di Lourdes. Presenta una facciata barocca, alta e snella, riquadrata da paraste doriche e conclusa da un frontone curvilineo; il campanile ha una cella a monofore e copertura cuspidata. Ospita opere importanti, sia scultoree che pittoriche, ed è il frutto di varie stratificazioni artistiche, con varie intitolazioni agiografiche.
Ad est della piazza sorge, silenzioso, il Teatro Rinaldi, dotato di una facciata timpanata, di gusto classico, retta da un porticato di quattro colonne, che venne completamente rifatto nel 1838, sotto Maria Luigia d'Austria, in seguito dedicato al pianista e compositore Giovanni Rinaldi (Reggiolo 1840 – Genova 1895). "La voce della luna" non ha potuto trovare spazio qui, nel teatro colpito duramente anche dal terremoto del 2012. Ma, simbolicamente, come auspicabile profezia, al termine delle riprese, che realizzarono in stile "Cinecittà" cimeli, fondali e scenari, nel teatro vennero stoccati provvisoriamente diversi oggetti: la statua in polistirolo bardata a bronzo ispirata al famoso "Pensatore" dello scultore Rodin, un grosso cinghiale impagliato o dei lampioni usati sul set. Questi feticci compongono un pezzo di immaginario "lunatico" per nuove idee, a futura memoria.